Un caso di tentato figlicidio materno

Tratto da “Medicolegal evaluation of a maternal filicide attempt: a case report”, di Dilşad Foto-Özdemir, et al., The Turkish Journal of Pediatrics 2019; 61: 622-628.

Traduzione e revisione a cura di:

Bruno C. Gargiullo, MD

Rosaria Damiani, MD

Sezione Italiana del National Center for Victims of Crime (Washington, D C)

Membership National Center on Domestic and Sexual Violence (Austin, Texas) e American Society of Criminology (Columbus, Ohio), Società di Criminologia.

Con la collaborazione di

Giulia Pieracci

Introduzione

«Cesare Lombroso (“L’Uomo delinquente”, 1889), a proposito dell’infanticida (Delinquente d’impeto) scrisse:

Quasi tutte le infanticide, molte delle quali delinquono per un sentimento d’onore esagerato, di cui è causa l’infamia che annette la società nostra alla maternità illegittima, mentre non rende obbligatoria al maschio la riparazione, né dà diritto alla ricerca della paternità, non lasciando alla femmina altra alternativa che o cancellare le tracce di un’immensa gioia, che per lei sola si converte in una immensa sventura, o restare per sempre infamata; e difatti le infanticide, è noto, come confessino facilmente il reato, come di rado sono recidive, spesso anzi siano d’onesti precedenti, e agiscano quasi sempre senza premeditazione, senza complici, senza strumenti propri, né, di raro, in istato di delirio: ed è noto come maritate nelle colonie penali dieno eccellenti risultati, quali non danno mai le ladre, le assassine comuni e le truffatrici (Cère, les populations dangereuses, Paris, 1872).

Il Lombroso, nel trattare le ree d’occasione e per passione nel suo studio sulla donna delinquente del 1893, “denunciò”, specialmente per le amanti abbandonate,

… L’ingiusto disprezzo del mondo per quello che è detta la loro colpa e che non è se non un eccesso di amore pericoloso in una società, in cui la gran forza è l’egoismo. La derisione degli uni, spesso la inumana severità dei parenti, accrescono il loro dolore già tanto grande: così la Jamais si vide per il suo fallo respinta dal padre moribondo che ne sdegnò l’ultimo bacio; la Provensal ricevette dal fratello una lettera che la dichiarava disonore della famiglia e divenuta una estranea. Questo movente, che per costoro è secondario, diventa il principale e più forte per il maggior numero delle infanticide: congiunto spesso però ad una specie di bisogno di vendicarsi sul bambino del padre infedele. ”Quando nacque – confessava alla Grandprè una infanticida – pensai che sarebbe stato vigliacco come lui, le mie dita allora gli si attortigliarono intorno al collo”. Ce ne danno la prova polmonare le statistiche comprovanti che il numero degli infanticidi e quello delle nascite illegittime è un rapporto inverso, e non, come parrebbe più naturale diretto: ciò che con altre parole significa che nei luoghi dove essendo più rare le nascite illegittime sono considerate con occhio più severo, l’infanticidio è più frequente. E’ dunque la paura del disonore che spinge al delitto»

Tratto da Gargiullo BC, Damiani R. “Vittime di un amore criminale” (FrancoAngeli Editore, 2010).

L’uccisione di un bambino da parte di un genitore è noto come figlicidio. La nozione generale di figlicidio raggruppa al suo interno tre tipologie di omicidio: neonaticidio, reato commesso a danno di un figlio entro le 24 ore dalla sua nascita; infanticidio, uccisione di un figlio entro il suo dodicesimo mese di età; figlicidio, omicidio di un figlio di età superiore ai dodici mesi.

Sia le vittime che gli autori di tale tipologia di reato presentano alcune caratteristiche:  

  • I bambini sono generalmente a rischio più elevato durante il primo giorno della loro vita.
  • Il figlicidio viene comunemente considerato un crimine prevalentemente femminile; tuttavia, casi di figlicidio paterno sono stati recentemente segnalati, soprattutto nei Paesi occidentali.
  • I casi di maltrattamento materno si verificano comunemente durante il periodo neonatale, mentre il reato commesso a danno di un minore può essere agito dal padre o dal patrigno dopo il periodo neonatale.
  • Mentre i padri, generalmente, utilizzano dei metodi attivi nella commissione di questo tipo di reato come l’accoltellamento, le madri usano metodi passivi come, ad esempio, l’esposizione a gas venefici.

A causa delle differenze di genere e culturali, i casi di figlicidio mostrano caratteristiche demografiche diverse e differenti modelli di commissione del reato.

Al fine di prevenire questo esecrabile reato, sarebbe auspicabile individuare i fattori di rischio, quali, ad esempio, basso livello socio-culturale (es., povertà della famiglia), conflitti interni tra le figure parentali e disturbi psichiatrici di uno o di entrambi i genitori. Comprendere le dinamiche familiari e le caratteristiche dei genitori è importante per l’individuazione delle famiglie a rischio e per effettuare gli interventi necessari. Nei casi in cui si sospetta il coinvolgimento del genitore nell’uccisione del minore, è opportuna una valutazione rigorosa e dettagliata.

È auspicabile, quindi, che una valutazione di tutti i componenti familiari (di entrambi i genitori), da parte di un team multidisciplinare, individui i fattori di rischio e scatenanti di un’azione figlicida, secondo una prospettiva globale e olistica. Il fine di questo report è di analizzare  le caratteristiche, secondo una prospettiva multidisciplinare, di un caso di tentato figlicidio materno per impiccamento. Inoltre, detto report si propone di allertare i professionisti che si occupano di minori (es., pediatri, neuropsichiatri infantili e psicologi dell’età evolutiva), che vengono a trovarsi in presenza di bambini vittime di maltrattamenti.

Il Caso

Una bambina di due anni (M.) venne ricoverata al Pronto Soccorso Pediatrico per evidenti segni (petecchie congiuntivali, ovvero piccole emorragie puntiformi e solco cutaneo da compressione della corda sul collo) che hanno lasciato sospettare un tentativo di soppressione mediante impiccamento.

La polizia, intervenuta su richiesta dei medici del Pronto Soccorso, ascoltò le spiegazioni della madre sulle abrasioni sul collo della bambina. La donna confessò agli Ufficiali di Polizia di aver tentato di impiccare la figlia con una corda di 2 metri e mezzo agganciata al soffitto. La stessa dichiarò che, dopo due minuti dal tentato omicidio, chiese aiuto ai vicini che trovarono la bambina in preda a convulsioni.

M. presentava uno stato di ridotta vigilanza (6-7 della Glasgow Coma Scale). Detta scala valuta il livello di coscienza sulla base della capacità di rispondere ad ordini semplici (es., alza la mano, muovi la testa), e un punteggio inferiore a 8 indica uno stato comatoso. Vennero osservate in M. convulsioni tonico-cloniche (irrigidimento degli arti e violenti scosse muscolo-scheletriche) della durata di 10-15 secondi, in remissione con la somministrazione di diazepam (benzodiazepina). Nessun edema cerebrale o frattura cervicale venne evidenziato dalla Tomografia Computerizzata (TAC) cranio e rachide cervicale. Per prevenire un’eventuale edema cerebrale, la bambina venne trattata con una soluzione per via endovenosa di NaCl al 3% (Cloruro di Sodio di 4 cc per kg. di peso corporeo).

Dopo sette giorni di follow-up e completo recupero fisico, la piccola paziente venne affidata ai Servizi Sociali. Prima di essere dimessa, fu condotta un’indagine psichiatrica su tutti i componenti della famiglia (genitori e nucleo parentale) per valutare il caso in questione e le dinamiche familiari.

Assessment psichiatrico e background familiare

L’intervista ai familiari evidenziò che M. è la secondogenita di una donna di 29 anni. L’esame neuropsicologico sulla bambina (condotto dal Department of Child and Adolescent Psychiatry) riscontrò: sviluppo psicofisico in linea con l’età cronologica e stato d’ansia clinicamente significativo (attaccamento morboso alla nonna materna).

Valutazione psichiatrica della famiglia

I genitori erano sposati da 12 anni (matrimonio apparentemente stabile). Conducevano una vita economicamente tranquilla (gestione di un bazar e fruizione di un appartamento di proprietà della nonna paterna). Tuttavia, una più attenta indagine rivelò atteggiamenti difensivi ed omertosi, in particolare da parte del padre di M., nel tentativo di nascondere un’aperta conflittualità con la di lui coniuge. A causa delle risposte discordanti delle due famiglie (materna e paterna), si decise di condurre un colloquio con l’insegnante della sorella maggiore della piccola. Secondo le informazioni ottenute dall’insegnante stessa, il padre conduceva traffici illeciti e venivano riportati gravi conflitti, di lunga data, all’interno della coppia genitoriale.

Tre mesi prima dell’episodio delittuoso, a danno della minore, la madre di M. lasciò la casa coniugale per trasferirsi, insieme alle figlie, a casa della di lei madre per un mese. Il  padre della piccola, non accettando l’allontanamento della moglie, minacciò di ucciderla con un coltello e di suicidarsi, qualora non fosse ritornata a casa con le bambine. Da quel momento la donna, spaventata, pianificò di lasciare sia le figlie che il marito. Tuttavia, in seguito alle pressioni dei familiari, la signora decise di far ritorno alla casa coniugale, dando al coniuge  una seconda possibilità. Ma le tensioni coniugali continuarono a persistere, acuendosi.

Il padre

Il rapporto paterno con le bambine era freddo e distante; appariva arrabbiato per la maggior parte del tempo e incurante degli obblighi coniugali e genitoriali. Da un’indagine approfondita emerse una storia di abuso di sostanze (eroina) e di spaccio. Durante i vari colloqui l’uomo si mostrò difeso, descrivendo una famiglia idilliaca e accusando gli altri componenti della famiglia di origine dell’accaduto, soprattutto il di lui fratello.

La madre

La donna proveniva da una umile famiglia, che non approvò sin dall’inizio il matrimonio dei genitori della piccola M. Il coniuge, geloso e possessivo, limitava qualsiasi relazione di tipo familiare e amicale (isolamento). Di conseguenza, le uniche attenzioni della donna erano rivolte alle figlie e, soprattutto, alla piccola M. La giovane donna, negli ultimi periodi, cadde in uno stato depressivo quale reazione al suo profondo senso di fallimento che compromise le sue capacità genitoriali. In merito all’accaduto, i nonni materni non furono in grado (?) di fornire informazioni utili per “spiegare” il tentato figlicidio da parte della loro figlia. Su un punto i predetti nonni non presentarono discordanze nelle loro dichiarazioni: l’amore della giovane mamma per le figlie.

In sintesi, la donna dichiarò:

  • di non avere un chiaro ricordo dell’accaduto (tentato impiccamento della figlioletta),
  • di non aver precedenti psichiatrici;
  • di non essersi rivolta ad uno specialista della salute mentale per il suo stato depressivo;
  • di temere, per la propria incolumità, le reazioni violente del marito qualora si fosse azzardata a porre fine al loro matrimonio (divorzio);
  • di perdere la potestà genitoriale, con affido esclusivo, ad un uomo (marito) tossicodipendente e spacciatore.

Le minori

Sia la piccola M. che la sorella maggiore (di anni otto) non presentavano alterazioni dello sviluppo psico-fisico.

Quale esito di questo dramma familiare, le bambine vennero affidate ai Servizi Sociali.

Durante i test di completamento delle frasi, la sorella di M. descrisse la madre una donna accudente e amorevole verso entrambe le figlie.

A distanza di un mese dall’affido ai Servizi Sociali, M. fu sottoposta ad una visita di controllo che evidenziò nella bambina: chiusura, isolamento, ansia abbandonica e apatia. Lo stato clinico della minore sollecitò gli specialisti a visite periodiche per monitorare la condizione psicofisica della bambina.

Elementi utili per la comprensione del caso

I ricercatori del presente studio hanno collocato la madre di M. nella categoria del figlicidio altruistico per i seguenti motivi:

–        bassa estrazione socioculturale e insufficiente scolarizzazione materna

–        mancanza di supporto sociale,

–        conflittualità coniugale

–        inadeguatezza ed inaffidabilità paterna (disoccupato, tossicodipendente, spacciatore, asociale, negligente, anaffettivo, verbalmente e psicologicamente minaccioso, ipercontrollante)

–        stato depressivo e visione pessimistica materna del suo futuro e di quello delle figlie.

In altre parole, la drammaticità della vita vissuta da questa donna produsse una condizione di delusione, scarso rispetto di sé e disperazione. Le delusioni a lungo termine e l’instabilità emotiva (processo disregolatorio) spinsero questa donna al gesto estremo.

Conclusioni

Tratto da Gargiullo BC, Damiani R. “Vittime di un amore criminale” (FrancoAngeli Editore, 2010).

«Sul figlicidio materno, un primo criterio definitorio lo si rintraccia negli studi di Susan Hatters Friedman, Sarah McCue Horwitz e Phillip J. Resnick (2005, pag. 167), ripresi nel 2007 da Susan Hatters Friedman e Phillip J. Resnick, che hanno revisionato i numerosi studi scientifici internazionali (USA, Canada, Regno Unito, Australia, Finlandia, Giappone, Austria, Brasile, Hong Kong, Nuova Zelanda, Svezia e Turchia), pubblicati nei peer-review (PubMed, PsychINFO, Psychology and Behavioral Sciences Collection e Sociological Abstract) dopo il 1980, utilizzando le seguenti Key-Words (parole chiave): figlicide, infanticide, neonaticide e fatal child maltreatment

Già nel 1969 Resnick (Child murder by parents: a psychiatric review of figlicide) tentò di fornire una chiave di lettura di questo fenomeno identificando, fra le donne che commettono tale reato, alcuni elementi predittivi (condizioni psicopatologiche quali depressione maggiore; psicosi; gravi disturbi di personalità, come, ad esempio, il disturbo borderline di personalità; deficit cognitivo; abuso di sostanze e comportamenti suicidari; contesto familiare d’origine multiproblematico, violento e culturalmente degradato; precedenti ricoveri in strutture ospedaliere psichiatriche).

Questi elementi, unitamente a condizioni di stress prolungato (gravi problemi economici; difficoltà relazionali con il partner; isolamento sociale; precedenti storie di abuso) e ai fattori precipitanti (assenza di adeguati supporti sociali; nuove responsabilità; difficoltà legate alla crescita del bambino quali, ad esempio, capricci, notti insonne, problemi di salute), possono portare una donna ad uccidere il proprio figlio.

Inoltre, Resnick ne propose una prima classificazione tipologica in base al movente:

  1. altruismo (altruistic filicide), associato o meno al suicidio, attuato allo scopo di evitare al bambino una qualsiasi forma di sofferenza (reale o supposta tale);
  2. delirio e/o allucinazione (acutely psychotic filicide), conseguente ad un vero e proprio scompenso psicotico;
  3. accidentale (accidental filicide), quale conseguenza estrema di gravi forme di maltrattamento infantile (es., violenze fisiche e sessuali);
  4. rifiuto (unwanted-child filicide) diun bambino (“un intralcio”) che non doveva mai nascere;
  5. rancore (spousal revenge filicide), ovvero per vendetta ed ostilità nei confronti del partner. A tal proposito vale la pena citare il “Complesso di Medea” (il cui nome proviene dal mito greco, scritto da Euripide nel 431 a.c.) che riguarda proprio l’uccisione del figlio o dei figli da parte della propria madre che, con questo atto estremo, intende punire (retaliating mothers) l’uomo, padre dei suoi figli, che l’ha gravemente offesa (es., un  tradimento subito o anche supposto).

Nel 1970, lo stesso Resnick, in un suo articolo Murder of the newborn: a psychiatric review of neonaticide, coniò il termine “neonaticidio” (neonaticide), ovvero l’uccisione di un neonato nelle prime ventiquattro ore di vita, distinguendolo dall’“infanticidio” (infanticide) che è commesso, invece, nel primo anno di vita. Tali definizioni furono desunte da un’analisi comparativa condotta su un campione di 34 donne accusate di neonaticidio e di altrettante madri accusate di figlicidio. Resnick arrivò a considerare il neonaticidio un’entità autonoma rispetto al figlicidio, differenziandosi nella diagnosi, nelle motivazioni sottostanti e nelle caratteristiche comportamentali.

Le donne neonaticide sono per lo più giovani, emozionalmente immature (subiscono passivamente una relazione sessuale; provano avversione per il loro stato di gravidanza; evitano discorsi su tale argomento; adottano comportamenti di evitamento sociale; sono dipendenti ed incapaci ad assumere decisioni significative come, ad esempio, il ricorrere ad una interruzione di gravidanza; temono il giudizio altrui), spesso primipare e non coniugate. Altri elementi che possono concorrere alla messa in atto di questo tipo di condotta criminale possono essere quelli socio-culturali (es., educazione, religione ed ambiente repressivo; realtà familiare anaffettiva, rifiutante e fortemente punitiva; relazioni affettive extrafamiliari umilianti e deludenti; contesto culturale retrogado e maschilista). Inoltre, l’intensità della reazione di una giovane ad una gravidanza non voluta, con conseguente avversione gestazionale, si muove lungo un continuum i cui estremi sono, da un lato, un’ansia moderata con mancanza di piacere (fase iniziale), e, dall’altra, un’estrema sofferenza psicologica (ansia paralizzante), che può manifestarsi con sintomi dissociativi quali, ad esempio, l’anestesia (temporanea assenza di percezione dei sintomi fisici legati allo stato di gravidanza), l’amnesia intermittente (ricordo altalenante del proprio stato), la depersonalizzazione (distacco dal proprio vissuto emotivo) e la derealizzazione (senso di estraneità ed isolamento) (Resnick P.J., 1970).

Il momento del parto, secondo lo studioso americano, può tradursi in fattore precipitante tale da spingere una giovane mamma, in preda ad un vero e proprio stato di impotenza parossistica, ad “eliminare” il proprio neonato (es., soffocandolo, strangolandolo, colpendolo violentemente in testa, annegandolo, esponendolo al freddo, gettandolo in un cassonetto) per porre fine, quale atto estremo, ad una sofferenza indicibile. Bonnet (1993) ampliò la definizione di neonaticidio di Resnick distinguendolo in:

  • attivo (active neonaticide), ovvero il diretto risultato di un’azione violenta volta ad uccidere il piccolo;
    • passivo (passive neonaticide), ovvero la morte del nascituro determinata da negligenza o abbandono.

Per quanto riguarda l’infanticidio  materno (l’uccisione di un bambino nel primo anno di vita), Resnick (1970) individuò quei fattori, che in stretta relazione tra loro, possono concorrere a determinare detta condotta criminosa:

  • gravi problemi economici della giovane donna, che di solito non supera i venti anni di età (coniugata o non);
  • bassa estrazione socio-culturale;
  • anomalie fisiche presentate dal bambino;
  • presenza di disturbi psichiatrici materni (36 su 72% delle infanticide);
  • contesto familiare d’origine sessualmente abusante;
  • tendenza al suicidio.

In conclusione, a causa dell’interazione di fattori fra i quali, ad esempio, gravi problemi familiari (separazione, grave lutto, abusi sessuali, violenze fisiche, …), situazionali (solitudine e/o particolari restrizioni economiche, …), relazionali (permanente conflittualità coniugale o rapporto instabile quale può essere una relazione con un uomo sposato, …), emozionali (vulnerabilità emotiva e mancanza di controllo degli impulsi), affettivi (marcati cambiamenti dell’umore con intensi e frequenti episodi disforici) e psichiatrici (grave depressione, schizofrenia, paranoia , …) una donna, posta in una condizione di forte stress (es., Maternity Blues, Depressione post-partum e Psicosi puerperale) (Tab. 1) può tradurre la sua rabbia, il suo dolore, le sue paure, le sue angosce e/o i suoi sentimenti di inadeguatezza in manifestazioni di disinteresse, di aggressività o di estrema crudeltà nei confronti di un proprio figlio, sino a causarne o volutamente provocarne la morte.

Maternity BluesSindrome transitoria, che compare pochi giorni dopo il parto e si risolve spontaneamente entro le due settimane; è caratterizzata da labilità emotiva, episodi di pianto immotivato, ansia nei confronti del neonato, astenia, difficoltà di concentrazione, insonnia.
Depressione Post-PartumSimile ad una depressione clinica, compare di solito entro i sei mesi dal parto, può persistere per settimane o mesi e si colloca a metà strada fra i sintomi transitori del Maternity Blues e quelli ben più gravi della Psicosi puerperale.
Psicosi puerperalePoco frequente, con un esordio compreso tra qualche giorno e circa un mese dopo il parto; è caratterizzata da instabilità emotiva, agitazione, idee suicide, disorientamento, sintomi psicotici relativi alla salute e alla sicurezza del neonato o all’incapacità della donna di accudirlo, allucinazioni che possono spingerla al suicidio o all’infanticidio; può assumere caratteristiche cicliche depressive e maniacali e occasionalmente può manifestarsi anche in forme schizofreniche; il disturbo necessita di un trattamento precoce e continuo».
Tab. 1- Definizioni di Maternity Blues, Depressione post-partum e Psicosi Puerperale