Dr. Bruno C. Gargiullo

D.ssa Rosaria Damiani

Nel 1906, Hugo Münsterberg, Direttore del laboratorio di psicologia della Harvard University e Presidente dell’American Psychological Association (APA, Washington DC), fece pubblicare un articolo sul Times Magazine di un caso di falsa confessione. A Chicago, una donna era stata trovata morta, strangolata con un filo di rame e abbandonata in un cortile. Il figlio “sempliciotto” di un contadino, che aveva scoperto il corpo, venne accusato del delitto. Nonostante avesse un alibi, dopo essere stato interrogato dalla Polizia, confessò l’omicidio, arricchendo, di volta in volta, il fatto-reato di dettagli. Il racconto del giovane era “assurdo e contraddittorio,” un chiaro esempio di “elaborazione involontaria di un suggerimento”, da parte della Polizia, durante gli interrogatori. Mustemberg espresse i suoi dubbi, sull’autenticità della confessione, in una lettera inviata ad un esperto Neurologo di Chicago, che finì sulla stampa locale. Una settimana dopo, il giovane, condannato per l’omicidio, venne giustiziato mediante impiccagione.

Il predetto studioso era avanti per i suoi tempi. Ci vollero decenni prima che le comunità, legale e psicologica, iniziassero a comprendere quanto potentemente un suggerimento possa plasmare la memoria e, di conseguenza, la Giustizia. In merito va citato il caso della McMartin Preschool che ruotava attorno ai ricordi di giovani vittime di ripetuti abusi sessuali da parte dei componenti della famiglia McMartin, che gestiva una scuola materna a Manhattan Beach, in California —ricordi che avevano dimenticato e poi recuperato dopo essere stati intervistati dal Children’s Institute International (CII), (Clinica di terapia contro gli abusi con sede a Los Angeles gestita da Kee MacFarlane). Il caso crollò nel 1990, in quanto l’accusa non poté produrre prove convincenti. Elizabeth Loftus, una psicologa cognitiva che aveva lavorato sul caso, si chiese se i ricordi dei bambini fossero stati fabbricati—come Münsterberg aveva formulato—piuttosto che realmente recuperati.

Per testare la sua teoria, Loftus inventò una “storiella”: raccontò a un gruppo di volontari che da bambini si erano persi in un centro commerciale e che un adulto gentile li aveva salvati. Falsamente, disse loro che questa esperienza era reale e aveva chiesto ai loro genitori dettagli biografici per rendere la storia credibile. Dopo due interviste, separate da una o due settimane, sei dei ventiquattro volontari avevano interiorizzato la storia, aggiungendo dettagli sensoriali ed emotivi propri. Loftus e altri ricercatori usarono tecniche simili per creare falsi ricordi di quasi annegamenti, attacchi di animali e incontri con Bugs Bunny a Disneyland (impossibile, poiché Bugs è un personaggio della Warner Bros).

Recentemente, due psicologi forensi—Julia Shaw e Stephen Porter—hanno “alzato la posta”. Nel numero di gennaio 2015 della rivista Psychological Science, hanno descritto un metodo per impiantare falsi ricordi non di smarrimenti durante l’infanzia, ma di crimini durante l’adolescenza. Ispirati dal lavoro di Loftus, hanno raccolto informazioni dai genitori dei partecipanti e diviso gli studenti in due gruppi, raccontando a ciascuno una diversa storia falsa: uno doveva ricordare un evento emotivo, come essere attaccato da un cane, l’altro un crimine, come un’aggressione. Durante l’esperimento, i partecipanti non potevano comunicare con i genitori.

Shaw e Porter scoprirono qualcosa di sorprendente: “Pensavamo di ottenere un tasso di successo del trenta per cento, invece superammo il settanta,” disse Shaw. “Solo una manciata di persone non ci credette.” Dopo tre sessioni, il settantasei per cento degli studenti ricordava l’evento emotivo falso; quasi la stessa percentuale ricordava il crimine fittizio. Shaw e Porter non avevano messo sotto pressione gli studenti; bastava un suggerimento autorevole e l’immaginazione dei soggetti faceva il resto. Come notato da Münsterberg, gli studenti sembravano desiderosi di autoincriminarsi.

Una giovane donna raccontò di un triangolo amoroso. Nel primo debriefing, ricordava una rissa a pugni con un’altra ragazza. Nel secondo, ricordava di aver lanciato un sasso dopo un insulto. Al terzo debriefing, il sasso era diventato grande quanto il suo pugno e lo aveva scagliato in faccia alla ragazza. Il suo racconto metteva in luce una forte carica emotiva: “Ogni volta che rievocava l’evento, il sasso riempiva un po’ di più la sua mano”. Nulla nell’atteggiamento della donna suggeriva che il ricordo fosse falso. Credeva fermamente nella veridicità della sua confessione, come la maggior parte dei partecipanti. Il ricordo era vivido, carico di dettagli che l’intervistatore non aveva fornito. Inoltre, Shaw e Porter non trovarono tratti di personalità che distinguessero i falsi confessori dai pochi resistenti, né alcun modo per identificare chi fosse più suscettibile.

Questi risultati sono preoccupanti, ovvero ripropongono ciò che può accadere durante un interrogatorio della Polizia: una piccola bugia, raccontata per scuotere la verità, può prendere radici nell’immaginazione dell’indagato. Lo psicologo Saul Kassin, che studia da decenni l’interrogatorio e la falsa confessione, affermò che l’esperimento di Shaw e Porter ha illustrato perfettamente come la pressione sociale possa indurre persone innocenti ad ammettere reati mai commessi”: Deve essere vero e devo trovare un modo per ricordarlo”.

Kassin citò il caso di Martin Tankleff, uno studente del Long Island che nel 1988 si svegliò trovando i genitori sanguinanti sul pavimento. Entrambi erano stati accoltellati; sua madre era morta e suo padre era in agonia. Chiamò la polizia. Dopo cinque ore di incalzante interrogatorio, un agente gli disse che suo padre ebbe la forza di accusarlo di essere il responsabile della loro aggressione (in realtà, il padre morì prima fare il nome del vero responsabile). In preda ai sensi di colpa, il giovane confessò di essere l’autore del duplice omicidio e venne condannato all’ergastolo. Dopo diciassette anni di detenzione, fu prosciolto dall’accusa di duplice omicidio in quanto furono arrestati i veri colpevoli. La psicologa Kassin condannò la pratica della menzogna per indurre un indagato a dichiararsi colpevole di un reato mai commesso.

In conclusione, lo studio condotto da Shaw e Porter ha dimostrato inequivocabilmente l’inesattezza e la malleabilità della memoria umana, prove che hanno già convinto le Corti Supreme delle Contee del New Jersey e del Massachusetts a “istruire” le Giurie a non basarsi unicamente sulle testimonianze oculari, in quanto non affidabili, ovvero non sempre veritieri: “questa ricerca mette in dubbio il peso da attribuire alla rievocazione mnesica, durante il processo, in assenza di prove corroboranti”.

Voi cosa ne pensate?

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