– Indagini neuroscientifiche sul cervello dei criminali –

A cura di Bruno C. Gargiullo, Rosaria Damiani

La frustrazione grave o prolungata può far nascere in un individuo, unitamente ad un sentimento di fallimento, un’intensa rabbia che, a seguito di un eccessivo accumulo di tensione, può sfociare in comportamenti aggressivi verso l’altro o diretti contro se stessi. Come è ovvio, la frustrazione non è soltanto il mancato raggiungimento di un obiettivo, causato da impedimenti fisici o da ostacoli socio-ambientali, o la perdita di un “importante” risultato raggiunto, poiché essa è sovente la conseguenza di un mancato soddisfacimento di un bisogno troppo elevato per le normali capacità di un individuo (es., la facilità con cui una persona si abitua a soddisfare i propri bisogni può portarlo a sopravvalutare le sue capacità).
Tra i comportamenti messi in atto da una persona, per sottrarsi ad un insopportabile senso di frustrazione, si annoverano la fuga dalla situazione frustrante, la negazione del bisogno non soddisfatto, la colpevolizzazione (attribuire ad altri la colpa dei propri fallimenti), la razionalizzazione (spiegazione, apparentemente attendibile, del proprio insuccesso) e la rinuncia ad assumere nuovi impegni (ritiro ostile). Queste condotte (meccanismi di difesa), non eliminando il senso di fallimento (mortificazione di un bisogno), possono produrre sia una ostilità repressa, che può sfociare improvvisamente in una reazione di collera parossistica (acting-out), sia un comportamento palesemente aggressivo (reazione emotiva, stabile e permanente, alla stragrande maggioranza delle situazioni).
Nel 1996, Spielberger affrontò il problema della rabbia, insieme di emozioni, convinzioni e comportamenti, che distinse in (a) rabbia come stato emozionale (Rabbia di Stato) e (b) rabbia come tratto stabile di personalità (Rabbia di Tratto).
La rabbia di stato è individuabile in quei soggetti che provano sensazioni di collera in determinate circostanze (emozione transitoria) la cui intensità può variare da una lieve irritazione ad un’intensa furia. Tale stato emozionale si accompagna all’attivazione del sistema nervoso autonomo (SNA) mediante l’innalzamento di alcuni parametri fisiologici (es., tensione muscolare, frequenza cardiaca e respiratoria, pressione sanguigna).
La rabbia di tratto si riferisce, invece, alla tendenza di un individuo a percepire un’ampia varietà di situazioni irritanti, fastidiose e frustranti. Essa include il temperamento rabbioso, ovvero una predisposizione generale a provare e/o ad esprimere sentimenti di rancore senza una specifica ragione, e la reazione di rabbia, ovvero le differenze individuali nell’essere portati ad esternare risentimento quando ci si sente criticati o minacciati ingiustamente dagli altri.
In merito, è quanto mai opportuno distinguere l’ostilità, intesa come attitudine che motiva una condotta aggressiva rivolta verso oggetti o persone, dalla rabbia, intesa come tratto o stato emotivo, e dall’aggressività, intesa come comportamento distruttivo o punitivo nei riguardi di persone o oggetti (Spielberger C.D., Jacobs G.A., Russell S.F. e Crane R.S., 1983, pp. 16). L’aggressività, a sua volta, può essere o conseguente ad una risposta emotiva (condotta reattiva) o deliberatamente messa in atto per fini strumentali (es., bullismo, spedizione punitiva).
Alcune opportune precisazioni:
– la rabbia è un’emozione umana primaria, che tutti possiamo provare ogniqualvolta ci sentiamo minacciati (es., ingiustizia, umiliazione o tradimento);
– il nostro cervello, in presenza di stimoli percepiti in chiave di pericolo, invia al nostro corpo segnali di attacco/fuga;
– una condizione di rabbia può estrinsecarsi mediante comportamenti attivi (aggressione fisica, vandalismo) o passivi (testarda opposizione– Addotta K., 2006);
– la rabbia regola i processi fisiologici e psicologici legati all’autodifesa, alla dominanza e ai comportamenti sociali ed interpersonali (Izard C.E. & Kobak R.R., 1991; Lewis M., Sullivan M.V., Ramsay D., & Alessandri S., 1992; Saarni, Campos, Camras, & Witherington, 2006).
Per concludere questa breve introduzione vale la pena precisare che lo studio di un comportamento violento richiede l’esame delle molteplici cause (neurobiologiche, psicologiche e socio-ambientali) che si accompagnano alla genesi ed allo sviluppo di ogni singolo episodio criminoso. Da ciò ne consegue che lo studio della eziologia del comportamento deviante è quanto mai complesso dal momento che la personalità del criminale è il risultato dello stretto rapporto esistente tra le variabili individuali e biologiche e quelle ambientali e socio-culturali (multifattorialità del comportamento umano).
In merito al comportamento violento, la maggior parte delle ricerche neuroscientifiche si sono focalizzate sul ruolo di alcuni circuiti neurali coinvolti nel giudizio morale. In particolare, coloro che presentano tendenze antisociali, violente o psicopatiche presentano un malfunzionamento nelle aree cerebrali coinvolte nella decisionalità morale: corteccia prefrontale dorsale (capacità di astrazione e di pianificazione delle azioni, flessibilità cognitiva, autoregolazione comportamentale) e corteccia prefrontale ventrale (regolazione emozionale, processi decisionali, apprendimento), amigdala (insieme di nuclei a forma di “mandorla”, situato nella porzione mediale del lobo temporale anteriore, archivio della memoria emozionale), ippocampo (porzione del lobo temporale anteriore, a forma di “cavalluccio marino”, che regola apprendimento, memoria ed, insieme all’amigdala, le emozioni) ed il giro angolare (coinvolto nel linguaggio e nella cognizione). Per fini esplicativi si riporta quello che accade nel cervello di un adolescente che è incline a mostrare risentimento e aggressività ogniqualvolta percepisce un evento in chiave di minaccia. Immaginiamoci cosa può accadere nel cervello di un adolescente o di un giovane adulto al di sotto dei venticinque anni (epoca in cui si completa lo sviluppo delle aree cerebrali della “crosta civilizzata”, deputata alla regolazione emozionale, alla valutazione del rischio, alla decisionalità, al giudizio morale), in cui risiede il desiderio di avventura, sperimentazione, curiosità, spavalderia e ribellione. Il comportamento aggressivo, oppositivo e violento di un adolescente è, quindi, legato all’iperattività dell’amigdala e all’inibizione dell’azione regolatoria della corteccia prefrontale (centro della volontà, autodeterminazione). L’amigdala, centro di elaborazione emotiva e sociale, è un ottimo indicatore del grado di minaccia al quale siamo pronti a reagire ancor prima che la corteccia prefrontale, responsabile dei pensieri e dei giudizi, sia capace di valutare l’adeguatezza della reazione. Le persone, con una buona capacità nella modulazione emozionale, sono in grado di recuperare rapidamente lo stress grazie all’azione regolatoria della corteccia prefrontale sull’amigdala.
Infine, un altro fenomeno che merita la dovuta attenzione è il “kindling” (accensione) e avviene quando i circuiti sottocorticali (ipotalamo, talamo, ippocampo e amigdala) sottoposti a ripetute sollecitazioni disfunzionali in condizioni ambientali stressanti (es., sottocultura di tipo delinquenziale, ambiente familiare avverso) giungono ad una massima attivazione, anche in presenza di uno stimolo di scarsa o nulla rilevanza.
In sintesi, la rabbia è un’emozione primaria mentre l’aggressività è la sua espressione comportamentale. «… Dal 1960, i dati scientifici hanno suggerito che essa (aggressività) può essere suddivisa in due tipologie (proattiva e reattiva). L’aggressività proattiva (strumentale, predatoria, fredda e premeditata) è un attacco controllato volto ad ottenere un obiettivo (economico o di dominio). Coloro che agiscono questo tipo di aggressione sono consapevoli dei vantaggi che possono ottenere usando questo tipo di violenza. Di contro, l’aggressività reattiva (impulsiva, emotiva, ostile o calda) è un atto fisico perpetrato con scarsa considerazione per le conseguenze o i danni provocati agli altri ed è spesso accompagnata da rimorso o stato confusionale» (Shiina A. 2015).
In merito all’aggressività proattiva si riporta quanto desunto dal professor James H. Fallon, neuroscienziato americano, docente di psichiatria e del comportamento umano presso l’Università di Medicina Irvine School della California. Da anni Fallon tenta di comprendere le radici del male, ovvero di rintracciare cause, ragioni e motivazioni neuroscientifiche alla base del comportamento criminale. Con le sue ricerche, Fallon ha posto in evidenza l’esistenza di una scarsa funzionalità in un’area dei lobi frontali e temporali che spiegherebbe sia l’assenza di moralità che la difficoltà a contenere la propensione alla violenza. I vari studi condotti dal neuroscienziato statunitense, sulle scansioni del cervello di decine di assassini psicopatici, lo condussero a queste conclusioni: rispetto a un cervello sano, i cervelli degli assassini presenterebbero una ridotta attività in alcune aree dei lobi frontali e temporali – aree che impediscono l’azione impulsiva e controllano il comportamento sociale, l’inibizione, la morale e l’etica. Ed è proprio la mancanza di autocontrollo a far diventare gli psicopatici, questi freddi ed abili calcolatori, dei folli assassini. “Queste sono alcune delle persone più pericolose che si possa immaginare”, afferma lo scienziato”.

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