Conoscere il cervello

Dr. Bruno Carmine Gargiullo e D.ssa Rosaria Damiani

Sino agli anni ’70, il cervello di un adulto è stato considerato una struttura fissa e immutabile (visione localizzazionista), ovvero ciascuna regione della corteccia cerebrale regolava autonomamente una determinata funzione (es., linguaggio, visione, udito, memoria), geneticamente predeterminata, senza interagire con le altre aree neurali. L’irreversibilità funzionale, prodotta dal danneggiamento di una di queste regioni, era definitiva. L’obsolescenza del cervello (invecchiamento) era, quindi, determinata dalla cessazione della produzione neuronale dopo l’età dello sviluppo, ad eccezione delle strutture deputate alle funzioni mnestiche (memoria) che continuavano ad essere flessibili in età adulta. Detto organo, una volta raggiunto il suo pieno sviluppo, era destinato ad un lento ed inesorabile declino. La sua plasticità era limitata al periodo dell’infanzia corrispondente alla fase prepuberale (fase critica), periodo dello sviluppo in cui un individuo era in grado di apprendere, con uno sforzo minimo, nuove abilità.

Negli ultimi trent’anni, le ricerche hanno dimostrato che le interconnessioni corticali nel cervello cambiano, in seguito all’esperienza personale. Il cervello è, dunque, caratterizzato dalla neuroplasticità, o rimappatura corticale, che è una complessa e multisfaccettata proprietà che permette, a detto organo, di “accordarsi” con i cambiamenti ambientali sulla base dello sviluppo, delle condizioni fisiologiche e dell’esperienza. Le connessioni individuali, all’interno del cervello, sono costantemente rimosse o ricreate, e ciò dipende dal modo in cui esse vengono utilizzate. Uno degli elementi chiave dell’abilità del cervello umano di modificarsi, mediante la neuroplasticità, è la creazione di interconnessioni tra neuroni, basata proprio sulla loro simultanea attivazione oltre un certo periodo di tempo. Detto concetto può essere riassunto con i seguenti aforismi: “se non lo usi, lo perdi” e “ se lo usi, lo migliori”. Questo perché se i neuroni o le sinapsi non si connettono tra loro, mediante l’apprendimento e la conoscenza, spariscono e subiscono un processo di potatura definito apoptosi (pruning). La plasticità sinaptica a lungo termine rappresenta, dunque, la base molecolare dell’apprendimento e della memoria (Clark e Beck, 2010; Kandell, 1998). È stato stabilito anche che l’apprendimento, accompagnato dallo sviluppo di nuove connessioni neuronali, conduce allo sviluppo di nuovi neuroni (Gould, Beylin, Tanapat, Reeves & Shaors, 1999).

L’impatto dell’esperienza sullo sviluppo neuronale e comportamentale dipende dal periodo, dalla durata e dalla intensità degli stimoli, dalla vulnerabilità biologica, dalla resilienza (capacità di adattamento ai cambiamenti), dai potenziali fattori di rischio e dagli effetti dei fattori protettivi. La ricerca neurobiologica dell’apprendimento e della memoria suggerisce che, dopo ogni nuovo apprendimento si verifica un necessario e sufficiente cambiamento nel sistema nervoso che supporta l’apprendimento. Numerosi studi neuroscientifici forniscono le basi per spiegare i principi della plasticità esperienziale che regolano l’apprendimento (Kleim & Jones, 2008; LeDoux J., 1996; Schnell K. e Herpertz S.C., 2007; Beutel M.E. et al., 2010; Karlsson H., 2011).

Per completare questa sintetica panoramica sulla plasticità, è bene ribadire che essa rappresenta la capacità dei circuiti nervosi di sfuggire alle restrizioni imposte dal corredo genetico e di variare la loro struttura e funzione in risposta agli stimoli esterni, alle modificazioni ambientali, all’esperienza e anche ai fattori intrinseci del soggetto (Blundo, 2007; Ansermet e Magistretti, 2008).

In breve, i circuiti cerebrali sono programmati geneticamente e dipendenti dall’esperienza (Siracusano A., Sarchiola L. e Niolu C., 2008). Ciò significa che i geni “guidano” le prime fasi dello sviluppo cerebrale e la formazione iniziale delle connessioni neurali, ma sono le interazioni con l’ambiente a completare, in maniera appropriata e specifica, la maturazione dei circuiti deputati al controllo della maggior parte delle funzioni cerebrali (Johnson, 2001; Thatcher, 1992; Stiles J., 2005).

Infine, riprendendo Malabou (2007), vi sono tre “ambiti di azione” della plasticità: di sviluppo (genesi e conformazione della rete neurale nell’embrione e nel bambino), di riparazione (compensazione di una lacuna prodotta, ad esempio, da un trauma, e rinnovamento neuronale), di modulazione dell’effetto sinaptico (modificabilità delle connessioni neuronali nel corso della vita).

Per concludere il nostro viaggio verso la comprensione dell’importanza della neuroplasticità, si può affermare che qualsiasi esperienza “scolpisce” fisicamente le connessioni neurali e rimane “impressa” nel cervello. Tutto ciò avviene a otto giorni dalla nascita così come a ottant’anni. Sino all’ultimo, il nostro instancabile e insaziabile cervello è “affamato di nutrimento” che viene offerto proprio dall’ambiente e dall’esperienza. In breve, la plasticità declina in età adulta, ma la capacità del cervello di rispondere agli stimoli ambientali permane per tutta la vita (Stiles J., 2000; 2005). In sintesi, è proprio questa plasticità che rappresenterebbe la base su cui si innesterebbe il possibile cambiamento di ciascun individuo, cambiamento che lo renderebbe “diverso” da ciò che era geneticamente predisposto. Questa modificazione cognitivo-comportamentale è il frutto dell’interazione tra il patrimonio genetico e le esperienze di vita.

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