Conoscere il cervello

Dr. Bruno C. Gargiullo e D.ssa Rosaria Damiani

In uno stato di rabbia inspiegabile e incontrollabile, Sheila Berry raccolse un grosso blocco di calcestruzzo, durante una discussione con un’amica, e lo usò per colpirla a morte (Commonwealth contro Berry 2014). Otto mesi dopo, nel marzo 2003, a Berry fu rimosso chirurgicamente un tumore al cervelletto. Le cartelle cliniche ospedaliere della donna (periodo dal 1990 al 2003) mostravano che mentre il tumore cresceva, rabbia e agitazione si acuivano. Dopo l’asportazione del tumore, il suo comportamento passò rapidamente da incontrollabile a sottomesso e docile.

Diversi anni dopo, una giuria del Massachusetts ha ritenuto Berry colpevole di omicidio di primo grado sulla base della premeditazione e della crudeltà. Al processo, un esperto ha testimoniato che un tumore nella zona mediale della corteccia del cervelletto (vermis cerebellaris o verme cerebellare), dove era stato localizzato il tumore, era  causa dei problemi comportamentali (discontrollo degli impulsi). In appello, la Corte Suprema del Massachusetts ha annullato la sua condanna, ma una giuria del 2011 ha nuovamente condannato Berry per omicidio di primo grado. Tre anni dopo, la Corte Suprema del Massachusetts ha deciso, una volta per tutte, di chiudere condannando la donna a omicidio di secondo grado non riconoscendole intenzionalità e crudeltà nell’azione delittuosa (Henry T. Greely and Nita A. Farahany, 2019)

N.B. “Il cervelletto (cerebellum), che richiama alla memoria quanto “scoperto” da Cesare Lombroso nel cranio del brigante Villella, è collocato nella parte inferiore dell’encefalo (apparato nervoso centrale contenuto nel cranio). Sebbene costituisca solo il 10% della massa cerebrale, contiene più della metà dei neuroni del cervello umano, occupando la maggior parte della fossa cranica posteriore (Kandel E.R. et al., 2000). In passato, il cervelletto non ha ricevuto molte attenzioni negli studi scientifici sugli aspetti non motori del comportamento umano, quali la cognizione e le emozioni. Tuttavia, alcuni scienziati, alla fine degli anni ’70, hanno iniziato a dimostrare l’importanza del cervelletto nei disordini emozionali (Snider R.S. e Maiti A., 1976; Heath R.G., 1977). Una svolta significativa la si deve agli studi condotti da Jeremy Schmahmann che estese il ruolo funzionale del cervelletto ai domini della cognizione e delle emozioni (Schmahmann J.D., 1991). Successivamente, il legame cervelletto-emozioni venne confermato da diversi studi clinici che posero in evidenza una significativa presenza delle anomalie cerebellari nei disturbi emozionali, inclusa la schizofrenia e la depressione (Schmahmann J.D., 2004). Ulteriori studi, sugli aspetti neurali delle emozioni, hanno confermato l’importanza del cervelletto nella regolazione e nel controllo degli stati emotivi, oltre alla coordinazione motoria, alla postura e al linguaggio (Baillieux H. et al., 2008). E’ da sottolineare che il cervelletto presenta innumerevoli connessioni bidirezionali con diverse aree della corteccia cerebrale, o neocorteccia (frontale, parietale e temporale) che modulano le emozioni (Turner B.M. et al., 2007; Middleton F.A. et al., 2001; Clausi S. et al., 2009). Ad anomalie strutturali del “cervelletto limbico” (verme e nucleo del fastige) in adulti e bambini con disfunzioni congenite (agenesia cerebellare, displasia, ipoplasia) o acquisite (ictus cerebellare, tumore, cerebelliti, trauma e disturbi degenerativi) ne consegue una disregolazione degli affetti, definita da Schmahmann J.D. e Sherman J.C. (1998) “Sindrome Cognitivo Affettiva Cerebellare (Cerebellar Cognitive Affettive Syndrome – CCAS)”. I comportamenti osservati da Schmahmann, Weilburg e Sherman (2007), e descritti dagli stessi pazienti e loro familiari, includevano: distraibilità, iperattività motoria, disinibizione, ansietà, comportamenti ritualistici e stereotipati, pensieri illogici, assenza di empatia, ruminazioni e ossessioni, disforia e depressione, atteggiamento difensivo (distanza fisica dall’altro), iperattivazione sensoriale, apatia, comportamenti regressivi e evidenti difficoltà socio-relazionali, così come aggressività e irritabilità. A ciò si aggiungevano deficit delle funzioni esecutive, quali: pianificazione, ragionamento astratto, memoria di lavoro, e indebolimento intellettivo. Questi profili neuro-comportamentali sono stati raggruppati in cinque domini: disturbo del controllo dell’attenzione, disturbo del controllo emozionale, disturbo delle abilità sociali, disturbo dello spettro autistico e disturbo dello spettro psicotico”.

(Bruno C. Gargiullo e Rosaria Damiani, 2018)

Ritornando alla tematica di questo articolo, le prove neuroscientifiche a sostegno della non piena colpevolezza di Berry all’epoca dei fatti (incapacità di intendere e di volere), ovvero che il tumore al cervelletto abbia contribuito a spiegare il suo comportamento, non sono  particolarmente insolite all’interno dei Tribunali ed in particolare nel sistema di giustizia penale. 

“Si riporta un secondo caso tratto dal paragrafo “Mercy or justice – Should Page be executed?” (Grazia o giustizia – Page dovrebbe essere giustiziato?) del capitolo “The brain on trial” (Il cervello come prova) in cui viene descritto il caso di Donta Page, afroamericano, che, all’età di 24 anni, rapinò, stuprò ed uccise una graziosa sua coetanea di razza caucasica.

Donta venne ritenuto colpevole di stupro e di omicidio volontario di primo grado e, per questo capo di imputazione, divenne un “candidato” alla pena capitale.

Come perito di parte, Raine (professore presso l’Università della Pennsylvania ed autore di un nuovo lavoro “The Anatomy of violence – The Biological Roots of Crime”) sostenne il modello biosociale per spiegare la violenza perpetrata dal periziando.

La storia del giovane afroamericano è costellata di violenza ed abusi di ogni tipo (es., totale trascuratezza fisica ed emozionale materna; violenze fisiche materne per futili motivi con conseguenti traumi cerebrali; ripetute e gravi violenze fisiche e sessuali, compresa la penetrazione anale, perpetrati a danno del piccolo Donta da “predatori” del quartiere), assenza di una figura maschile di riferimento e, da non trascurare, la sua esposizione ad agenti neurotossici (piombo), di essere stato concepito da una madre adolescente affetta da gonorrea e di presentare difficoltà di apprendimento, scarso funzionamento cognitivo (compromissione della memoria e della funzionalità esecutiva), bassa attivazione fisiologica (bassa frequenza cardiaca a riposo: assenza di paura e comportamenti a rischio) e scarsa funzionalità della corteccia orbitofrontale e prefrontale mediale con ridotta funzionalità del polo temporale.

Presentava, inoltre, una storia familiare di disturbi mentali (nonno materno sessualmente incestuoso: abusava sessualmente della figlia, madre di Donta, sin dall’età di quattro anni), padre tossicodipendente e con precedenti penali.

La tesi difensiva di Raine, secondo la quale le radici del comportamento criminale di Page erano da ricercare nella combinazione di fattori biologici e sociali (multicausalità), venne accolta dal collegio giudicante, composto da tre giudici, che condannarono l’imputato all’ergastolo e non più alla pena capitale” (Bruno C. Gargiullo e Rosaria Damiani, 2018).

In conclusione, quando pensiamo all’uso delle neuroscienze in un’aula di Tribunale, la nostra immaginazione spesso si sposta verso situazioni in cui la volontà e la scelta dell’autore sono messe in discussione. 

Gli studi neuroscientifici si basano su un campione estrapolato dalla popolazione oggetto della ricerca. Di conseguenza, le conclusioni dedotte dall’analisi dei risultati non spiegano il perché una data persona abbia agito in quel modo. Ed ecco spiegato il motivo per cui le prove neurobiologiche non vengono comunemente utilizzate per determinare la colpevolezza o l’innocenza come potremmo credere. Piuttosto, tali prove possono influenzare una  condanna (verdetti di colpevolezza e, in alcuni casi, durata della pena). La neuroscienza è oggettiva e deve soddisfare una certa soglia di affidabilità. Per quanto utili siano le scansioni cerebrali, sono semplicemente misure “proxy” di una funzione cerebrale. La soggettività umana è intrinsecamente inglobata nell’interpretazione dei dati neurobiologici, il che potrebbe portare a dubbi in merito alla credibilità. 

“Vale la pena precisare che lo studio di un comportamento violento richiede l’esame delle molteplici cause (neurobiologiche, psicologiche e socio-ambientali) che si accompagnano alla genesi ed allo sviluppo di ogni singolo episodio criminoso. Da ciò ne consegue che lo studio della eziologia del comportamento deviante è quanto mai complesso dal momento che la personalità del criminale è il risultato dello stretto rapporto esistente tra le variabili individuali e biologiche e quelle ambientali e socio-culturali (multifattorialità del comportamento umano)” (Bruno C. Gargiullo e Rosaria Damiani).

In sintesi, la scienza può informare la legge, ma alla fine non può “dettarla”. 

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